Expatrie

  • 2016


Catalogo

Installazione Casa dell’Architettura – Roma, 2016

Expatrie

“L’arte politica spesso è frivola. L’arte non deve ripetere quello che sai già. Deve porre domande”
Kutlug Ataman

Expatrie è il frutto di un progetto artistico nato e sviluppato all’interno del contesto di Metropoliz, spazi domestici ricavati e occupati da famiglie di varie nazionalità all’interno dell’ex fabbrica Fiorucci a Roma. Il lavoro prodotto ruota attorno al tema dell’abitare, toccando storie familiari e storie nazionali, storie di immigrazione e disagio, d’integrazione e protesta sociale, condizioni precarie di vita ai margini della società, in bilico tra legalità e illegalità.
Penso a quanto sia cruciale il tema dell’abitare e quante metafore sviluppi: lo spazio domestico è anche una questione politica oltre che privata, di responsabilità nazionale perché parla di rifugi, di asili contro la fame, di viaggi, di perdita di certezze e di avventure verso l’ignoto. Da qui il titolo “Expatrie” (dal francese “expatrié”: espatriato), ma anche patrie che non sono più perché non trattengono e non accolgono. La storia soggettiva si intreccia alla storia collettiva, storia di confini, contesti di transito in perenne sospensione in un cortocircuito simbolico tra privato e pubblico, tra casa e nazione.
Quasi a giocarmi un blitz da solo, ho aggiunto distanza tra me e il mio lavoro iniziando ad operare in un contesto non familiare che mi dichiarava estraneo, un rifugiato in terra straniera.
Al limite tra azione performativa e gesto di pubblica utilità comincio a misurare gli interni domestici. Come un geometra del catasto, metro estraibile alla mano, traccio con carta e matita l’identikit di 17 case mai viste in scala, neanche dagli stessi abitanti, rendendo ufficiale qualcosa che ufficiale non è. Intanto faccio foto di gruppo alle 17 famiglie che incontro e trasporto le planimetrie ricavate su fogli di poliestere opalino intagliati secondo lo schema architettonico. Sovrapponendole ai ritratti fotografici, permetto una lettura parziale che delega alle parti asportate in poliestere il compito di concedere la visione. La casa diventa griglia formale e simbolica che inquadra i volti, le figure, diviene salvezza e prigionia, costrizione e rifugio, emblema di resistenza e dignità sociale. Un modo per stare sul “rovescio delle immagini” per dirla con Michel Leiris e rivelare un’identità architettonica della persona oltre a quella somatica, un tracciato geometrico antropomorfo, pareti trasformate in spugne visive, contenitori di vita domestica e di memorie personali.
A fine mappatura ad ogni famiglia ho dato la possibilità di aggiungere alla casa esistente uno spazio in più da immaginare, la “stanza dei sogni” che ho fedelmente riportato sulla pianta reale; è lo spazio irrazionale del desiderio, la capacità visionaria dell’uomo di scavalcare i limiti e andare oltre.
Le soglie che ho varcato e le persone che ho conosciuto sono diventate occasioni di viaggi insperati; latitudini e fusi orari condensati in pochi metri, un jet lag da cortile che di porta in porta cambiava le coordinate temporali, geografiche ed emozionali.
Di queste case a tempo determinato mi rimangono gli arredi scarni ed essenziali, gli odori acri e dolci degli armadi stracolmi, i colori acidi delle mattonelle segnate e quelli caldi degli intonaci, le diffidenze iniziali, il pudore delle donne, gli sguardi sospetti, ruvidi e poi distesi, la dignità dei sorrisi accoglienti, le montagne di giocattoli, la curiosità dei bambini che sguazzano nelle piscine prefabbricate, vecchie fotografie e cartoline, nostalgie magnetiche appese ai frigoriferi, i suoni familiari dei pranzi nei cortili, il fruscio di lenzuola, le poche risate e le preghiere, ma anche i suoni distanti e i luoghi misteriosi delle famiglie che si sono negate.
Il mio desiderio è che i lavori prodotti traducano i punti di vista locali in un linguaggio universale trasformando questi aspetti difficili e problematici in una visione poetica, sospesa, dispiegando un’altra logica dello sguardo. Lancio la sfida per vedere in che modo l’arte possa innestarsi sulle questioni politiche e sociali e non tradirsi, come quando Alfredo Jarr crea un’opera sui desaparecidos di Pinochet o Ai Weiwei profana con colori moderni vasi antichi della dinastia Han.
L’ultima parola la lascio al silenzio delle immagini e a quel tanto che sfugge al controllo e alla volontà dell’intenzione.

Iginio De Luca, giugno 2016