Expatrie

  • 2016

 

 

Installazione Casa dell’Architettura – Roma, 2016

 

Catalogo

Expatrie, 2016

Mostra personale, Casa dell’Architettura, Roma
1-26 Luglio 2016
A cura di Giorgio de Finis

Expatrie è il frutto di un progetto artistico nato e sviluppato all’interno del contesto di Metropoliz, spazi domestici ricavati e occupati da famiglie di varie nazionalità all’interno dell’ex fabbrica Fiorucci a Roma. Il lavoro prodotto ruota attorno al tema dell’abitare, toccando storie familiari e storie nazionali, storie di immigrazione e disagio, d’integrazione e protesta sociale, condizioni precarie di vita ai margini della società, in bilico tra legalità e illegalità.
Penso a quanto sia cruciale il tema dell’abitare e quante metafore sviluppi: lo spazio domestico è anche una questione politica oltre che privata, di responsabilità nazionale perché parla di rifugi, di asili contro la fame, di viaggi, di perdita di certezze e di avventure verso l’ignoto. Da qui il titolo “Expatrie” (dal francese “expatrié”: espatriato), ma anche patrie che non sono più perché non trattengono e non accolgono. La storia soggettiva si intreccia alla storia collettiva, storia di confini, contesti di transito in perenne sospensione in un cortocircuito simbolico tra privato e pubblico, tra casa e nazione.
Quasi a giocarmi un blitz da solo, ho aggiunto distanza tra me e il mio lavoro iniziando ad operare in un contesto non familiare che mi dichiarava estraneo, un rifugiato in terra straniera.
Al limite tra azione performativa e gesto di pubblica utilità comincio a misurare gli interni domestici. Come un geometra del catasto, metro estraibile alla mano, traccio con carta e matita l’identikit di 17 case mai viste in scala, neanche dagli stessi abitanti, rendendo ufficiale qualcosa che ufficiale non è. Intanto faccio foto di gruppo alle 17 famiglie che incontro e trasporto le planimetrie ricavate su fogli di poliestere opalino intagliati secondo lo schema architettonico. Sovrapponendole ai ritratti fotografici, permetto una lettura parziale che delega alle parti asportate in poliestere il compito di concedere la visione. La casa diventa griglia formale e simbolica che inquadra i volti, le figure, diviene salvezza e prigionia, costrizione e rifugio, emblema di resistenza e dignità sociale. Un modo per stare sul “rovescio delle immagini” per dirla con Michel Leiris e rivelare un’identità architettonica della persona oltre a quella somatica, un tracciato geometrico antropomorfo, pareti trasformate in spugne visive, contenitori di vita domestica e di memorie personali.
A fine mappatura ad ogni famiglia ho dato la possibilità di aggiungere alla casa esistente uno spazio in più da immaginare, la “stanza dei sogni” che ho fedelmente riportato sulla pianta reale; è lo spazio irrazionale del desiderio, la capacità visionaria dell’uomo di scavalcare i limiti e andare oltre.
Le soglie che ho varcato e le persone che ho conosciuto sono diventate occasioni di viaggi insperati; latitudini e fusi orari condensati in pochi metri, un jet lag da cortile che di porta in porta cambiava le coordinate temporali, geografiche ed emozionali.
Di queste case a tempo determinato mi rimangono gli arredi scarni ed essenziali, gli odori acri e dolci degli armadi stracolmi, i colori acidi delle mattonelle segnate e quelli caldi degli intonaci, le diffidenze iniziali, il pudore delle donne, gli sguardi sospetti, ruvidi e poi distesi, la dignità dei sorrisi accoglienti, le montagne di giocattoli, la curiosità dei bambini che sguazzano nelle piscine prefabbricate, vecchie fotografie e cartoline, nostalgie magnetiche appese ai frigoriferi, i suoni familiari dei pranzi nei cortili, il fruscio di lenzuola, le poche risate e le preghiere, ma anche i suoni distanti e i luoghi misteriosi delle famiglie che si sono negate.
Il mio desiderio è che i lavori prodotti traducano i punti di vista locali in un linguaggio universale trasformando questi aspetti difficili e problematici in una visione poetica, sospesa, dispiegando un’altra logica dello sguardo. Lancio la sfida per vedere in che modo l’arte possa innestarsi sulle questioni politiche e sociali e non tradirsi, come quando Alfredo Jarr crea un’opera sui desaparecidos di Pinochet o Ai Weiwei profana con colori moderni vasi antichi della dinastia Han.
L’ultima parola la lascio al silenzio delle immagini e a quel tanto che sfugge al controllo e alla volontà dell’intenzione.

Iginio De Luca

 

Expatrie, 2016

Personal exhibition, Casa dell’Architettura, Rome
1-26 July 2016
Curated by Giorgio de Finis

Expatrie” is the outcome of an artistic project conceived and developed within the context of Metropoliz, domestic spaces carved out and occupied by families of various nationalities within the former Fiorucci factory in Rome. The work revolves around the theme of dwelling, delving into both family and national narratives, stories of immigration and hardship, of integration and social protest, and precarious living conditions on the fringes of society, teetering between legality and illegality.
Reflecting on the crucial nature of the theme of dwelling and the myriad metaphors it unfolds: the domestic space becomes a political as well as a private matter, a national responsibility, as it speaks of refuges, havens against hunger, journeys, loss of certainties, and adventures into the unknown. Hence the title “Expatrie” (from the French “expatrié”: expatriate), signifying both those who have left their homeland and homelands that are no longer such because they neither retain nor welcome. The subjective story intertwines with the collective narrative, a tale of borders, transient contexts perennially suspended in a symbolic short circuit between private and public, home and nation.
Almost playing a solo blitz, I introduced distance between myself and my work by operating in an unfamiliar context that declared me an outsider, a refugee in a foreign land. Teetering on the edge between performative action and an act of public utility, I began measuring the interiors of homes. Like a cadastral surveyor, with a retractable meter in hand, I sketched the identikit of 17 houses never seen before, not even by their inhabitants, making official something that isn’t official. Meanwhile, I took group photos of the 17 families I encountered and transposed the floor plans onto sheets of opaline polyester cut according to the architectural schema. By overlaying them on photographic portraits, I enable a partial reading that delegates to the polyester-removed parts the task of granting vision. The house becomes a formal and symbolic grid framing faces and figures, serving as both salvation and imprisonment, constraint and refuge, an emblem of resistance and social dignity. A way to dwell on the “reverse side of images,” to borrow from Michel Leiris, revealing an architectural identity beyond the somatic, a geometric anthropomorphic trajectory, walls transformed into visual sponges, containers of domestic life and personal memories.
After mapping each family, I gave them the opportunity to add an additional space to their existing homes, the “room of dreams,” faithfully depicted on the actual floor plan; it is the irrational space of desire, the visionary capacity of humans to surpass limits and go beyond. The thresholds I crossed and the people I met became opportunities for unexpected journeys; latitudes and time zones condensed into a few meters, a courtyard jet lag that, from door to door, changed temporal, geographical, and emotional coordinates.
Of these temporary homes, I retain the sparse and essential furnishings, the acrid and sweet scents of overflowing wardrobes, the acidic colors of marked tiles and the warm hues of plasters, initial suspicions, the modesty of women, the skeptical and then relaxed glances, the dignity of welcoming smiles, mountains of toys, the curiosity of children splashing in prefab pools, old photographs and postcards, magnetic nostalgias hanging on refrigerators, familiar sounds of lunches in the courtyards, the rustling of sheets, a few laughs and prayers, but also distant sounds and mysterious places of families that have denied themselves.
My desire is for the works produced to translate local perspectives into a universal language, transforming these challenging and problematic aspects into a suspended, poetic vision, deploying another logic of gaze. I pose the challenge of seeing how art can intersect with political and social issues without betraying itself, as when Alfredo Jaar creates a work on Pinochet’s desaparecidos or Ai Weiwei profanes ancient Han dynasty vases with modern colors.
I leave the last word to the silence of images and to that which eludes the control and will of intention.

Iginio De Luca